La Polifora n° 52

Ritratto di papa Clemente XIII conservato nei Musei Vaticani

CARLO REZZONICO, UN VESCOVO VENETO AL SOGLIO PONTIFICIO

di Giuseppe Gullino

CARLO REZZONICO, UN VESCOVO VENETO AL SOGLIO PONTIFICIO

 

di Giuseppe Gullino*

 

Duecentosessantasette anni fa (6 luglio 1758), il veneziano Carlo Rezzonico diventa Clemente XIII, il cui nome è inciso nella grande lapide che sovrasta la fontana di Trevi. Cardinale e vescovo di Padova, sale al soglio di Pietro in una congiuntura tra le più difficili e travagliate per la Chiesa.

Due parole sul personaggio e la sua famiglia. I Rezzonico sono di origine lombarda, e più precisamente di Como; le cronache li definiscono mercanti, ma in realtà operano nella finanza internazionale; nel 1638 uno di loro, Aurelio, si trasferisce a Venezia, dove diventa procuratore della Repubblica di Genova per le operazioni connesse con la compravendita di titoli del debito pubblico della Serenissima.  Aurelio non si sposa, ma ad aiutarlo in un’attività di sempre maggior respiro giungono i figli di suo fratello Carlo; saranno costoro ad acquistare il patriziato, nel 1687. La Repubblica infatti, impegnata nell’ennesima guerra contro i turchi, apre l’iscrizione al Libro d’oro dietro esborso di 100.000 ducati. È una cifra enorme, ma per i Rezzonico i soldi non sono un problema; in quello stesso anno uno dei nipotini, il diciannovenne Abbondio, abate col vizietto del gioco, riesce a perdere 40.000 ducati a trenta-quaranta col principe Livio Odescalchi, nipote del papa Innocenzo XI.  Guarda la combinazione: questo pontefice è pure lui di Como, imparentato alla lontana con i Rezzonico e, un tempo, compartecipe dei loro affari: questo può contribuire a spiegare, se non l’ascesa al papato del nostro Carlo, quantomeno la strategia familiare che lo destinerà alla carriera ecclesiastica.

Era nato nel 1693 da Gian Battista e Vittoria Barbarigo (altro ramo rispetto a san Gregorio Barbarigo); nella dichiarazione dei redditi del 1712 suo padre denuncia 39 campi e una villa a Bassano, in quella del 1740 i campi sono divenuti 2.789, le ville sono salite a otto, alle quali sono da aggiungere una cinquantina di case tra Padova e Venezia.  Siamo chiaramente di fronte a un salto qualitativo: i Rezzonico hanno abbandonato l’attività finanziaria e investito il patrimonio in immobili; a coronamento delle loro ambizioni ecco, verso la metà del secolo, l’acquisto di un palazzo lasciato incompiuto dal Longhena, la cui ultimazione essi affidano al maggior architetto allora presente a Venezia: Giorgio Massari, che ne fa quella sontuosa dimora sul Canal Grande conosciuta come Ca’ Rezzonico, oggi Museo del Settecento Veneziano.

Carlo ci abita poco: dal 1743 è vescovo di Padova, un pastore dai costumi esemplari, tanto che il cardinale Lambertini lo ritiene “assolutamente il prelato più degno che abbiamo in Italia”, poiché tutte le rendite episcopali “si spendono in beneficio dei poveri e della Chiesa”.  Salito al trono di Pietro nel 1758, il suo pontificato è angustiato dai continui attacchi contro la Santa Sede causati dalla ventata di irreligiosità che accompagna il movimento illuminista.  La storia conosce molte stranezze: nel corso del XVI e XVII secolo si son visti pontefici guerrieri, mondani, nepotisti, laddove nel XVIII questi mali non sono riscontrabili in egual misura; eppure la Chiesa settecentesca, nonostante possa valersi di papi coscienziosi e preparati, appare debole e remissiva. Soffre la rivoluzione culturale che serpeggia per l’Europa, quel ‘prurito di cose nuove’ che alimenta l’incessante polemica antigesuitica dei philosophes: basti pensare a Voltaire o, più semplicemente, al film Mission, con un Robert De Niro in gran forma.

Carlo Rezzonico paga questo clima avvelenato con la propria vita: muore infatti la notte del 2 febbraio 1769, colpito da apoplessia alla vigilia del concistoro ch’egli aveva convocato nel tentativo di rispondere all’offensiva delle corti borboniche, che volevano l’abolizione della Compagnia di Gesù.

E il palazzo sul Canal Grande? La famiglia ci spende un patrimonio, ma se lo gode poco, neppure dieci anni, visto che si trasferiscono tutti a Roma quando Carlo diventa papa. Il suo pontificato poteva essere l’inizio di nuove fortune domestiche, e invece nessuno dei Rezzonico avrà figli maschi: l’ultimo di essi, il principe Abbondio, muore a Pisa nel 1810, dopo aver fatto erigere da Canova il monumento funebre al grande zio, in S. Pietro.

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* Giuseppe Gullino è professore già ordinario di Storia moderna nell’Università di Padova e socio effettivo dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti

A VENEZIA, 1806

di Giuseppe Gullino

A  VENEZIA, 1806

 

di Giuseppe Gullino*

 

Venezia, aprile 1806. Gli ultimi reparti austriaci stanno lasciando il Veneto, passato a far parte del Regno italico dopo la vittoria di Napoleone ad Austerlitz, la più bella, la più sfolgorante, la più clamorosa delle sue affermazioni. Per capirne la portata è opportuno fare un passo indietro. Incoronato imperatore il 2 dicembre 1804, Napoleone ha ormai l’Europa ai suoi piedi, tranne l’Inghilterra che ha il dominio del mare, di tutti i mari: se la Francia dispone del continente, un metro oltre la spiaggia, in tutte le spiagge d’Europa, lì inizia l’Inghilterra. Bisogna invaderla. A tal fine Napoleone raduna un consistente corpo di spedizione a Boulogne, sulla Manica, e ordina all’ammiraglio Villeneuve di lasciare Tolone con la flotta e portarsi nel nord della Francia, imbarcare le truppe, invadere l’Inghilterra e chiudere la partita. Senonché a interrompere l’ottimale fluire degli eventi ci pensa quel satanasso di Nelson, che il 21 ottobre 1805 a Trafalgar distrugge la squadra francese. Senza le navi l’invasione dell’Inghilterra è inattuabile, ma con un colpo di genio Napoleone riesce a trasformare lo scacco bruciante nel suo più brillante successo: accade ad Austerlitz, in Moravia. Nell’arco di poche settimane, sposta la sua armata dalla Manica al cuore dell’Europa, dove infligge una strepitosa disfatta agli austro-russi, coalizzati contro di lui a fianco degli inglesi. È la cosiddetta ‘battaglia dei tre imperatori’: quella austriaco, quello russo e l’ultimo arrivato, quello francese.  Per quel che riguarda il nostro paese, la principale conseguenza consiste nell’annessione del Veneto al preesistente Regno italico napoleonico: come si è accennato sopra, gli austriaci lasciano le nostre province e vengono sostituiti da reparti franco-italici. Portiamoci a Venezia, presso la chiesa di S.ta Maria Zobenigo, non lontano dalla piazza di S. Marco. Qui un giovane ufficiale con l’uniforme francese è fermo davanti ai bassorilievi dei plinti che sorreggono i pilastri della struttura; quei bassorilievi raffigurano le principali fortezze veneziane tra la Dalmazia e le isole jonie: Candia, Corfù, Spalato, Zara. Sfiora, poi tocca più determinato i rilievi che percorrono tutta la costa, arriva a Corfù e con la memoria, con la fantasia sopperisce alle immagini che mancano. Vede Cefalonia e lì accanto Itaca, dove Ulisse sterminò i giovani guerrieri che insidiavano la sua Penelope. Come Ulisse, anche quel soldato con l’uniforme francese stava cercando la sua patria, era anche lui stanco, sfiduciato, gli erano rimaste ben poche speranze; e tuttavia Ulisse era arrivato a casa, il suo viaggio aveva avuto termine, mentre lui neppure sapeva dove trovare, dove cercare la fine, e il senso, della sua ricerca. Era stordito, quel giovane ufficiale, ma non sapeva staccarsi da quelle pietre, da quel tumulto di sensazioni che lo dominavano, lo angosciavano, lo commuovevano anche, e profondamente. Perché quei luoghi li aveva visti, ci aveva abitato, aveva trascorso parte della sua giovinezza, la parte migliore. Poi la morte prematura di suo padre, che lì aveva prestato la sua opera di medico, aveva costretto la madre, una greca di Zante, a cercare rifugio a Venezia, presso i parenti del marito. Vi era giunta con i figli, ancora piccoli e bisognosi di aiuto.  Venezia, la grande metropoli in grado di stupire, e abbagliare, poteva offrire, se non a tutti, a molti dotati di ingegno e intraprendenza, valide prospettive di promozione sociale. Quel giovane povero, che talvolta faceva a piedi il percorso per arrivare a Padova e ascoltare le lezioni di Cesarotti, riuscì a emergere, senza risparmiarsi e affrontando tante pesanti umiliazioni. Ma ora era diventato capitano dell’esercito napoleonico ed era riuscito a rivedere i luoghi della sua giovinezza, la madre, la patria. Ma era tempo di rientrare in caserma; con un ultimo sospiro voltandosi indietro più di una volta, Ugo Foscolo lasciò l’immagine delle isole di cui faceva parte Zacinto, la sua Zante.

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Giuseppe Gullino è professore già ordinario di Storia moderna nell’Università di Padova e socio

effettivo dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti

LA NOSTALGIA DEL SACRO NEL MELODRAMMA TRA ’8OO E ’9OO

di Francesco Cavalla

La nostalgia del sacro nel melodramma tra ’8oo e ’9oo

 

di Francesco Cavalla*

 

La perdita del sacro è fenomeno che caratterizza la cultura dominante in occidente. Ed è fenomeno difficilmente contestabile. Recentemente Pierangelo Sequeri ha scritto un libro dal titolo estremamente significativo: Addio a Dio?

Tanto per essere chiaro: per ‘sacro’ intendo una dimensione, una realtà che esorbita dal campo dei fenomeni e non è da essi condizionabile. Per ‘perdita del sacro’ intendo che il riferimento ad una realtà che sorpassa il mondo fenomenico è oggi, per lo più, ritenuto superfluo quando non dannoso allorché si tratti di organizzare l’esperienza personale e sociale.

Le origini della perdita sono risalenti. Non è quello odierno il luogo per ripercorrerne le tappe (e forse non ne avrei le capacità). Tuttavia mi permetto di invitare gli astanti a riflettere su di un momento cruciale nella nostra storia culturale: è il momento in cui si è creduto di esibire la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Proprio là dove si è pensato di fornire la più salda garanzia della presenza del sacro, proprio in quel frangente la si è persa rovinosamente. Ci sono voluti secoli perché ci si accorgesse che quanto si voleva affermare era con ciò stesso effettualmente negato.

Dio non si di-mostra. Se la presenza di Dio è la conseguenza di una premessa, ciò che è preso per indefettibile, indiscutibile è la premessa; cioè la capacità della ragione di dimostrare. Dunque per organizzare l’esperienza – per conoscere e volere – la ragione basta a se stessa; la presenza di Dio diventa idea eventuale e non necessaria. Molti autori fin dal XV secolo lo hanno affermato esplicitamente. Se la premessa (la premessa era la causalità) viene al fine configurata come un’ipotesi, allora anche la presenza di Dio, conseguenza di una ipotesi, diviene ipotesi essa stessa: da assumersi e usarsi quando occorra; ed è stata effettivamente usata per garantire sistemi morali e politici convenienti alla cultura dei ceti dominanti. Ma i sistemi etico-politici sono destinati per loro natura ad essere travolti dalla storia: e con essi l’ipotesi che li sorreggeva.

Questo precipitare del sacro da ciò che è primo e necessario a termine di un riferimento eventuale, superfluo o addirittura dannoso, è testimoniato tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 da molte voci della saggistica, della letteratura, della filosofia: e sono voci angosciate perché temono che, tolto il sacro, la convivenza sia abbandonata alla pura volontà degli uomini in un gioco dove, alla fine, è destinata a prevalere la volontà del più forte.

Molte voci, dicevo: nella mia piccola fatica senile ho scelto di ascoltare i messaggi di alcuni grandi che, in genere, non vengono considerati quando si parla del problema del sacro. Mi sono orientato verso alcuni geni della musica autori di ammirevoli melodrammi: è una via non troppo battuta percorrendo la quale spero comunque di offrire qualche inedito spunto di riflessione.

Quando si parla di melodramma nell’800 non si può non ricorrere subito alla figura di Giuseppe Verdi: questo grandissimo musicista la cui dimensione ancora non rifulge quanto dovrebbe perché, come afferma il Maestro Riccardo Muti, è troppo spesso eseguito male. Verdi a partire dalle opere della maturità presenta e approfondisce coerentemente una sua visione del mondo: che potremmo definire come anarchia metafisica. Si tratta di ciò: Verdi ritiene che ogni forma di potere – da quella più maestosa a quella dell’esperienza quotidiana – presenta la maschera della falsità giacché pretende a sé una irrefragabilità e una capacità di incidere sulla libertà individuale che spettano soltanto a quell’Assoluto che supera il mondo dei fenomeni.

Qui ricordo solo due momenti della produzione verdiana. Il primo sembrerà abbastanza ovvio a chi ha conoscenza delle opere del Bussetano. Alludo al Don Carlo; il riferimento a questa opera è abbastanza ovvio. Nella versione in quattro atti il melodramma si apre con la voce di un misterioso frate che recita «grande è Dio sol». È un programma.

La scena centrale dell’opera è costituita dal duetto tra l’imperatore Filippo II e il Grande Inquisitore. Entrambi hanno una concezione del potere come potestà assoluta che non ammette alcuna istanza liberale. Non sono d’accordo sul modo di esercitare la forza: ma non si ‘mollano’ perché ciascuno ha un imprescindibile bisogno dell’altro. L‘Imperatore ha bisogno di una autorità che si dica rappresentante dell’Assoluto e con ciò dia fondamento al suo potere illimitato; ma l’Inquisitore a sua volta ha bisogno di una autorità civile che lo riconosca rappresentante dell’Assoluto. Qui Verdi raccoglie da Schiller (il libretto del Don Carlo è tratto da una tragedia appunto di Schiller) la rappresentazione della struttura tipica con la quale si costruisce un potere incontrollabile: da un lato sta un’autorità che si pretende non legittimata da volontà umana ma da un’investitura superiore che la costituisce sopra gli uomini; dall’altro lato sta il rappresentante di una volontà ‘sacra’ che ha però bisogno di essere riconosciuto come tale da chi esercita una potestà effettiva sulla società. Così Verdi mette in scena quel circuito infernale, tra forza puramente repressiva e superstiziosa presenza di una potenza ‘metafisica’ (asseritamente proveniente ‘dall’alto’), che costituisce il plesso originario di inganni ed autoinganni con il quale il potere maschera la propria sostanziale mancanza di giustificazione.

Il finale dell’opera è sensibilmente diverso da quello immaginato da Schiller. Si decide di sopprimere don Carlo, figlio di Filippo II, per le sue idee libertarie: ma proprio quando il principe sta per essere arrestato una voce e una potenza arcana lo rapisce agli occhi degli astanti. Il significato di ciò è chiaro: il potere assoluto non spetta a nessuna potenza umana ma solo a Chi è realmente Assoluto. Ma lo scetticismo politico di Verdi va oltre: neppure il desiderio di libertà di don Carlo può trovare realizzazione sulla terra; la libertà piena giace solo in Colui che sta oltre.

Il secondo luogo su cui vorrei soffermarmi può sembrare meno scontato quando si parli di potere e di metafisica. Ma guardando le cose più da vicino… Parliamo del Falstaff. È una commedia tratta da un lavoro, non tra i più riusciti, di William Shakespeare. Qui i poteri che si scontrano non hanno nulla di epico, sono poteri molto domestici; c’è il potere di un marito non troppo acuto che vuole controllare le azioni della moglie e vuole far sposare la figlia a un babbione scelto da lui; c’è il potere di due bravacci che credono di contare qualcosa perché portano una spada al fianco; c’è il supposto potere della seduzione immediatamente ridicolizzato quando è il vecchio e panciuto Falstaff che se lo attribuisce. Alla fine si sa – è una commedia – va a finire tutto bene e il merito è di Alice Ford, la moglie del marito geloso. Lei beffeggia il suo sposo, ridicolizza Falstaff, mette al loro posto tutti i personaggi e la figlia sposa chi vuole lei, non chi voleva il padre. Tutto a posto allora? Finale allegro soltanto? Fino ad un certo punto. Si osservi bene. A conclusione dell’opera i personaggi avanzano sul proscenio e cantano «tutto nel mondo è burla»: ma il canto è modellato su di una fuga; e la fuga è la struttura musicale per secoli fatta propria dalla musica liturgica cristiana. Come a dire: voi vi date tanta pena per le vostre beghe quotidiane ma quello che conta veramente sta sopra e viene dopo.

Peraltro Verdi qui (come in precedenza soprattutto nel Simon Boccanegra) indica dove stia nell’umano una traccia del sacro, indica un elemento che rinvia ad una realtà perenne e superiore: si tratta della capacità di generare con amore, proprietà peculiare ed esclusiva della donna. Dopo il Falstaff Verdi, raggiunta un’età estrema, comporrà le stupefacenti laudi in onore della Vergine.

A Verdi, nell’800, sta appresso l’altra maestosa colonna del teatro musicale: Richard Wagner. Ma a Wagner ci dirigiamo passando per una tappa intermedia rappresentata da Arrigo Boito. Questa sosta può essere giustificata dal giudizio che il grande critico musicale Paolo Isotta ha dato del compositore padovano: «Boito non è un genio come Verdi [e neppure come Wagner, aggiungo io] ma è pur sempre un genio». E fra entità incommensurabili è arduo proporre qualunque confronto.

Boito, dunque: il Mefistofele. L’opera ha conosciuto vicende alterne: grande successo ai primi del ‘900, molte discussioni dopo, poi un quasi completo oblio fino ai giorni più vicini a noi quando è stata ripresa in due importanti centri musicali: Roma e Venezia. Ebbene, tra le molte parole che si sono spese sul capolavoro di Boito non ricordo vi siano quelle che hanno posto la domanda fondamentale: chi è Mefistofele, il diavolo che osa scommettere con Dio? Mefistofele rappresenta la potenza della tecnica che, nei suoi albori, era già pienamente consaputa da Boito; più in generale rappresenta le proprietà del ‘fare’ che rivendicano una superiorità assoluta sul puro sapere e contemplare. La tecnica non è atea, non nega l’esistenza di Dio, ma semplicemente reputa la nozione di Dio del tutto inutile. Perciò Mefistofele sfida l’Eterno dichiarandosi capace di sottrarre alla gloria celeste l’anima del fino allora sapiente e pio Faust. Senonché, nel lungo cammino che percorre insieme a Faust ringiovanito, Mefistofele incontra due ostacoli insormontabili sui quali non riesce ad agire in alcun modo: l’amore disinteressato (quello di Margherita verso Faust stesso) e la bellezza artistica (rappresentata dalla figura della mitica Elena). Come si sa l’opera di Boito è tratta dal capolavoro di Ghoete e, intendiamoci subito, in Ghoete ci sono mille cose che non ci sono in Boito. Però in Boito ce ne è una specifica che si mostra appieno nel finale. Nel quale Faust prende atto dei limiti del suo tentatore, vede nell’amore e nella bellezza le tracce della presenza divina e, sottraendosi alle spire del puro fare in questo mondo, si salva. Dice: «m’è baluardo l’evangel».

E adesso Wagner: la prima e l’ultima opera del grande compositore. Lohengrin non è il primo lavoro in senso cronologico, ma è il primo in cui Wagner imprime le sue geniali cifre caratteristiche. Vi si narra di un cavaliere misterioso che, da un luogo arcano, giunge a difesa di Elsa di Brabante ingiustamente accusata di aver ucciso il fratello. Per lei il cavaliere sosterrà un giudizio di Dio, lo vincerà, si proporrà come suo sposo a patto che non gli si chieda mai il suo nome. Il Re, Enrico l’Uccellatore, lo proclamerà protettore del Brabante. Ma i nemici del cavaliere e di Elsa – non a caso indicati come adoratori degli antichi dèi pagani – tramano fino al punto di indurre Elsa a porre la domanda fatale. Ma il nome non può essere detto. Il cavaliere è simbolo del sacro e, forse, direttamente dello stesso Cristo: di una realtà che non può venire circoscritta entro i limiti della conoscenza e dell’utilità. Ogni pur comprensibile tentativo di determinare tale realtà provoca un tragico fraintendimento se non si accompagna all’accettazione che quello che si prova a definire giace nella sua essenza in un posto molto lontano, oltre i limiti dell’esperienza umana.

Così il cavaliere, davanti al Re e al popolo di Brabante, rivelerà chi è: egli è Lohengrin, figlio di Parsifal (del quale diremo appresso) e subito dopo si dipartirà alla volta dell’inaccessibile luogo da dove era provenuto. Al suo posto compare il fratello di Elsa, non morto ma fatto segno di un precedente perfido sortilegio. Di Lohengrin resterà il ricordo di chi lo ha visto e ha assistito alle sue gesta.

Wagner, alla società del suo tempo che gli appariva ormai dominata da interessi economici e di potere, oltre a ‘ricordare’ la presenza del sacro, indica anche un modello di rifermento: costituito dal plesso di valori che avevano informato la nascita del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica. Con la sua ultima opera, Parsifal, tale reminiscenza storica viene abbandonata e addirittura confutata.

Come fonte del libretto di Wagner si suole ricordare il poema di Wolfram von Eschembach: in realtà la figura di Parsifal aveva ricevuto ben più ampia fortuna nella letteratura, in prosa e in versi, tra il XII e XIII secolo, con lavori non ignoti al grande musicista. Chi era Parsifal nel 1200? Egli rappresentava l’idea dell’«uomo nuovo», dell’uomo, cioè, che si avviava ad un percorso di fede e di gloria non già perché appartenente ad un determinato ordine sociale (feudale o monastico) ma facendo leva sulle sue personali aspirazioni, sulla sua ragione e volontà. Già con la ripresa della figura di Parsifal, Wagner ci dice che l’antico Parsifal ha fallito, ha prodotto una chiesa senza carisma e dimentica del sacro, opposta ad un castello sociale fondato su apparenti valori e reale uso della pura forza. Da un lato dunque, nell’opera di Wagner, sta il castello di Monsalvat, luogo dove si radunano i cavalieri del Graal (la coppa che aveva raccolto l’ultimo sangue di Cristo) abbattuti perché avevano perduto il possesso della sacra lancia di Longino (quella che aveva colpito il costato del Salvatore sulla croce): così che, di conseguenza, non ricevevano più il Venerdì Santo la miracolosa visita di una colomba discesa dal cielo. Dall’altro lato sta il maniero di Klingsor, diabolico mago che con la seduzione e l’inganno si era impadronito della sacra lancia. Parsifal giunge da Klingsor, e resiste alle tentazioni cui il mago lo sottopone con le bellezze del suo giardino e delle fanciulle a lui asservite. L’atteggiamento di Parsifal non è dovuto ad una posizione moralistica: ma ad una situazione dell’anima molto più profonda ed efficace. Parsifal comprende che le offerte di Klingsor degradano l’uomo e prova una totale compassione per coloro che, ingannati, sono costretti in una vita decaduta. Con questa comprensione e compassione Parsifal si riprende facilmente la sacra lancia e il costrutto di Klingsor si dissolve. Parsifal vittorioso torna a Monsalvat e restituisce ai cavalieri la grazia di ricevere ancora la visita dello Spirito.

Come è facile immaginare si sono avute moltissime discussioni sul significato del Parsifal. Si è dubitato che avesse un contenuto effettivamente religioso, lo si è tacciato di sincretismo culturale e, persino, di contenere venature razzistiche. (Naturalmente queste critiche non toccano in ogni caso il valore altissimo della musica). Ma, a mio avviso, si tratta di parole che non colgono nel segno. Certo, il Parsifal non è un’opera cristiana – anche se raccoglie molti simboli della tradizione cristiana – nel senso che non ha intenti apologetici. L’opera di Wagner è uno stupendo monumento al sacro a prescindere da qualsiasi determinazione culturale dello stesso; è un monumento a quell’oltre che può essere attinto a partire dalle più diverse esperienze: e che, se viene negletto, lascia l’umanità in preda alle apparenze, all’inganno, alla violenza.

Chi è Turandot? Con questa domanda cerchiamo di legittimare un accostamento a prima vista azzardato nel momento in cui al grande compositore tedesco mettiamo vicino la figura di Giacomo Puccini. Turandot – nell’opera eponima che il musicista lucchese scrive, lasciandola incompiuta, poco prima di morire – è la principessa bellissima, inarrivabile, che decreta la morte di ogni suo pretendente se questi non sappia risolvere tre enigmi da lei proposti. Il principe Calaf per arrivare a conquistarla attraversa tre strati della società organizzata: il popolo formato da indistinte individualità, la burocrazia di stato, i sovrani custodi della tradizione. E risolve anche gli enigmi: ma non basta. Turandot gli si sottrae ancora; e lui allora le propone a sua volta un arcano: dica la principessa «di gelo» qual è il suo nome ignoto a tutti. In un ultimo colloquio Turandot si rivela: «io sono sacra». E Calaf le si consegna dicendole lui stesso il proprio nome.

Calaf non ha trovato colei che è sacra nel sapere popolare, nelle istituzioni sociali, nella durata delle tradizioni. Neppure usando la ragione è riuscito a conquistarla. Il sacro non è a disposizione delle capacità umane. Per incontrarlo l’unica possibilità è quella di consegnarglisi inerme sperando che sia il sacro stesso a piegarsi verso colui che ne è indigente. Calaf dice spontaneamente il suo nome a Turandot: e la sacra principessa lo amerà.

Da ultimo prenderemo in considerazione l’opera di Igor Stravinsky: La carriera (meglio sarebbe dire: Il destino) di un libertino. Qui non si rappresenta un sacro perduto e da riconquistare, ma si mette in scena lo spettacolo di una società che si è totalmente privata del sacro. Stravinsky riprende il mito di Faust ma lo svolge, si potrebbe dire, in modi affatto secolarizzati. Si racconta di Tom, un giovane di campagna, teneramente amato da Anna, che viene irretito da uno sconosciuto personaggio, Shadow (il diavolo) che gli si presenta annunciandogli una inaspettata e cospicua eredità e offrendosi di fargli da guida per entrare in possesso dei beni ricevuti e goderne. Al termine di vicende varie – nel corso delle quali Tom è indotto a scambiare per uso della libertà l’esercizio del più arbitrario capriccio – il giovane si trova, in un cimitero, insoddisfatto e privo di qualunque risorsa economica, davanti a Shadow: e questi esige il compenso per i suoi servigi, esige la sua anima. In una scena tra le più drammatiche dell’intera storia del melodramma, intessuta di pochi suoni e molti allusivi silenzi, Shadow sembra preso da una sorta di compassione verso la vittima: estrae un mazzo di carte e dichiara che rinuncerà a quanto gli spetta se Tom riuscirà ad indovinare tre carte estratte. E il giovane, anche associando le sue emozioni al ricordo di Anna, riesce nell’impresa. E qui è un formidabile colpo di scena.

Il diavolo dice: «non rinuncio a niente; cosa vuoi che me ne faccia dell’anima che è una cosa in cui non credete più nemmeno voi. Mi prendo quello che voi reputate il più grande bene e cioè la vostra capacità di intendere e volere; mi prendo il tuo senno».

Tom è rinchiuso in una clinica per alienati: vaneggia e si crede Adone. Ed è così: una società che si priva del sacro si crede libera e bella mentre è solo folle. Tom riceve la visita di Anna – simbolo delle Fede – la quale in nessun modo riesce a rinsavirlo. L’opposto della Fede non è la ragione ma la follia.

Ultimo colpo di scena: tutti i protagonisti si avanzano sul proscenio a dire la ‘morale’ della vicenda. Il più significativo è l’intervento del diavolo il quale afferma: «anche io preferirei non esistere, ma finché ci sono in giro giovani neghittosi e ingenui sono costretto a fare il mio lavoro». Come a dire: l’unica cosa che a voi interessa al di là delle situazioni è essere produttivi di ricchezza; siete tutti matti!

Qualche considerazione finale. Sono profondamente convinto della sostanza del messaggio che ho ricavato dal melodramma e dell’allarme in esso contenuto nei confronti di una società ormai quasi del tutto secolarizzata e attraversata da un autentico turbine di violenza. E naturalmente credo nella grandezza del mezzo che ha trasmesso il messaggio e cioè nel melodramma: del quale non so quanto oggi siano capiti e apprezzati i più profondi aspetti.

Il teatro in musica sembra godere oggi di buona salute: si susseguono esecuzioni in ogni parte del mondo, si danno interpretazioni musicali di valore, riceve una consistente fortuna mediatica e di critica. Eppure è anche soggetto a radicali fraintendimenti ad opera di registi ignoranti e presuntuosi: questi spesso ambientano il racconto dell’opera in luoghi e situazioni che non hanno niente a che vedere con le vicende narrate nel libretto e musicate dal compositore. Abbiamo visto una Turandot ambientata in una automobile dove due coniugi litigano; abbiamo visto un Mefistofele ambientato in una infermeria; abbiamo visto un Parsifal ambientato in un gruppo di reduci della seconda guerra mondiale. Ma cosa credono questi registi, di essere più intelligenti dei geni di Verdi, Wagner, Puccini? Non sarei così drastico nei giudizi se prima di me, con ben altra competenza, con ben altro carisma, non ne avesse pronunciato di analoghi e più duri il grande Maestro Riccardo Muti.

Il pretesto di tali censurabili spettacoli è ‘l’attualizzazione’. E chi avanza questa idea mostra tutta la sua inadeguatezza. Perché il mito non si attualizza. Impariamo dai nostri Padri Greci: essi mettevano in scena, con la tragedia, racconti di una precedente tradizione orale o letteraria e, raccogliendoli in una narrazione teatrale costituivano un ‘mito’: cioè una vicenda capace di parlare a molti uomini per molto tempo. L’attualità del mito risiede proprio nella sua estraneità alle storie dell’esperienza contemporanea.

Per chiudere vorrei proporre una riflessione sull’ultimo verso del Parsifal: «redenzione al redentor». Tra le molte interpretazioni che tali parole hanno ricevuto una mi piace particolarmente. È questa: la redenzione, già avvenuta con l’apparizione del sacro nella coscienza dell’uomo, rende ogni singolo uomo capace di farsi redentore, cioè nunzio della irrinunciabile presenza del sacro dentro e oltre i confini del mondo empirico.

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Francesco Cavalla è professore emerito di Filosofia del diritto dell’Università di Padova e socio effettivo dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti

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L’Istituto conserva

donazioni e lasciti, fondi archivistici, opere d’arte, collezioni scientifiche, biblioteche che ne esprimono la complessa articolazione degli interessi e il prestigio riconosciuto dal mondo accademico. 

L’Istituto conserva i documenti relativi alla propria storia e fondi di personalità importanti per la storia d’Italia. 

Il patrimonio librario è costituito da oltre 100.000 volumi, pervenuti, per la maggior parte, in scambio con le principali istituzioni accademiche mondiali.

Nel corso della sua storia bicentenaria l’Istituto ha raccolto numerose opere d’arte, rappresentative dell’ampiezza dei campi d’interesse.